14 Dicembre 2019

Il 70% dei datori di lavoro ci ha già osservati sui social prima di invitarci ad un colloquio. I primi secondi del vis-a-vis saranno dedicati a valutare motivazione, proattività ed entusiasmo. La prima impressione si forma in circa 7 secondi. Per questo oggi è importante parlare anche di self branding.

Nina Mufleh ha un sogno ben preciso: lavorare per Airbnb, il più grande portale online che mette in contatto viaggiatori alla ricerca di un alloggio e persone con stanze extra da affittare. Ma come può una ragazzina americana colpire l’attenzione di uno dei siti leader a livello mondiale, le cui caselle di posta sono probabilmente intasate di migliaia di candidature ogni giorno?

L’idea di Nina è semplice ma ambiziosa: fare qualcosa che nessun altro ha ancora fatto. Nina crea così un sito internet ad hoc, www.nina4airbnb.com, in cui si racconta e parla di sé, del suo sogno di lavorare in AirBnB, ma fa anche qualcosa di più. Trova una modalità per mettere in evidenza ciò che sa fare, realizzando di propria sponte un’analisi sulle opportunità di mercato per il colosso americano: su quali paesi dovrebbe investire AirBnB e perché? Nina analizza numerose nazioni dove Airbnb è ancora poco presente e ne valuta il potenziale economico, oltre che la facilità di penetrazione.

Il progetto di Nina per Airbnb

Uno screenshot dal sito creato da Nina per presentare la propria candidatura ad Airbnb.

La risposta? Airbnb dovrebbe investire nei paesi del Medio Oriente, spiega Nina… ma non è questa la storia che vogliamo raccontare. Ciò che vogliamo mettere in evidenza è come Nina, che avrebbe potuto spedire un CV come tutti gli altri candidati autodefinendosi “dinamica, intraprendente e proattiva”, abbia fatto invece una scelta di tipo diverso, trovando una modalità più originale per raccontarsi.

Da quel che ci risulta Airbnb non ha mai assunto Nina… la giovane ha però avuto moltissima visibilità su riviste internazionali e social media, posizionandosi come una vera e propria influencer, e ottenendo un lavoro per UpWork, la piattaforma di servizi freelance più grande al mondo (1 miliardo di dollari di giro d’affari ogni anno), con sede nella Silicon Valley.

Motivazione e proattività: la competenza della passione

La causa più comune di insuccesso ad un colloquio di lavoro non è la mancanza di esperienza, non è il titolo di studio, non è l’età… di solito, è la motivazione. Le aziende amano i candidati che si dimostrano curiosi, proattivi, che hanno spirito di iniziativa e che investono su sé stessi. Non occorre raggiungere i livelli di Nina; l’azienda vuole però vedere una persona che si tiene al passo con i tempi, che investe nell’aggiornamento delle proprie competenze, che non si è seduta sulle proprie certezze ma ambisce a qualcosa di nuovo e migliore. Perché? Perché quell’entusiasmo e quell’energia si trasferiranno anche sul posto di lavoro e il selezionatore capace riesce a visualizzare il candidato nel nuovo ambiente di lavoro,

La voglia di fare si evince tra le righe di quello che trasmettiamo ed è quasi impossibile da dissimulare: non basta un semplice “sono motivato e disponibile”, l’atteggiamento e ciò che abbiamo fatto nella vita parla per noi!

Spesso la motivazione e la proattività si percepiscono ancora prima di fare il colloquio, già al telefono: la velocità di risposta, in generale, l’accettare di presentarsi ad un colloquio anche con preavviso breve, saper rispondere subito a una richiesta, dimostrare di aver approfondito storia e prodotti dell’azienda sul loro sito, parlare del proprio futuro lavorativo con passione ed energia.

Sapersi vendere: la competenza della prima impressione

Non bisogna però pensare che siano solo le nostre esperienze e le nostra ambizioni a contare: quelle sono dentro di noi ma in fase di selezione occorre saperle mettere in mostra e presentare professionalmente. In generale un recruiter ha decine di selezioni aperte ogni mese e centinaia di candidati da vagliare. Una prima intervista conoscitiva può durare anche solo 10 minuti. Secondo Forbes ci vogliono meno di 7 secondi per capire se la persona che abbiamo davanti ci trasmette sensazioni positive o meno… E in quei 5 secondi nemmeno parliamo! Non diciamo che studi abbiamo fatto né raccontiamo le nostre esperienze lavorative.

Il sorriso, lo sguardo, la postura, l’abbigliamento, l’odore che abbiamo, il tono del nostro “Buongiorno” parlano di noi.

Abbigliamenti diversi a confronto

Anche il nostro outfit per un colloquio può variare a seconda della posizione per la quale applichiamo. Un posto da analista finanziario in banca probabilmente richiederà un abbigliamento formale; una selezione per un fotografo freelance di una giovane agenzia creativa ammetterà maggior informalità.

Sapersi raccontare comprende una serie di competenze trasversali: in primis è necessario partire da un’attenta autoanalisi per saper leggere le proprie competenze (tipicamente attraverso attività proprie del bilancio di competenze, con un consulente o un coach); occorre poi saperle abbinare alle esigenze dell’azienda, alla sua storia e la sua traiettoria professionale, ma anche alle nostre aspettative future e alla comprensione raggiunta rispetto a ciò che ci piace e/o siamo bravi a fare (in genere si parla di redazione del piano di carriera); infine va sviluppata una buona capacità oratoria e di public speaking, in grado di intrattenere l’interlocutore e veicoli i messaggi importanti che vogliamo far passare.

Errori da evitare: gestire il nostro alter ego digitale

Tutto il lavoro descritto sopra ha poco senso se poi una ricerca del nostro nome su Google restituisce immagini poco edificanti ed esternazioni tutt’altro che sagge. L’uso che facciamo dei social media nella vita è personale e – a rigor di logica – dovrebbe rimanere riservato per i soli occhi di amici e conoscenti; la realtà e la cronaca ci insegnano che non è così.

Frasi spiritose e foto scattate con leggerezza possono dare le impressioni sbagliate se interpretate fuori dal contesto. Il 70% dei datori di lavoro verifica i profili social dei candidati durante le selezioni (era il 60% due anni fa), una pratica che – seppur non illegale – potrebbe presto essere sanzionata come violazione della privacy in alcuni Paesi occidentali ma che ciononostante rimarrà una prassi diffusa, ci piaccia o meno.

Un rischio altrettanto concreto è quello di non presentare in maniera coerente le proprie qualifiche ed esperienze. Se abbiamo riportato sul CV forti competenze di comunicazione e social media, un recruiter si aspetterà di trovare un profilo aggiornato, ben articolato, e di leggere post e commenti argomentati e solidi. Rimarrà molto sorpreso se dovesse consultare un profilo inattivo, con sporadici commenti aggressivi e sgrammaticati in calce a video a sfondo politico.

Allo stesso modo, se ci siamo candidati per una posizione nel marketing perché è ciò per cui abbiamo studiato e siamo stufi del nostro lavoro come impiegato commerciale, potrebbe essere disorientante per il recruiter trovare un profilo che parla solo di vendite e annovera esclusivamente esperienze in ambito sales. Sarà invece opportuno che anche il nostro LinkedIn rispecchi il nostro percorso di carriera e, perché no, il cambio di traiettoria in corsa: tante esperienze commerciali, è vero, ma anche corsi di formazione e collaborazioni in ambito marketing, oltre ad una passione per il settore che dovrà emergere con forza.

Scopri le consulenze di carriera


Autori: Riccardo M., ingegnere industriale ed esperto di innovazione tecnologica; Erica N., laureata in psicologia del lavoro e blogger.